START | Venezia | Curiosità storiche e non


I Barbacani sono quei travi sporgenti in alcune case a Venezia che servono a rendere più grande la casa “senza stringere troppo la calle”. In pratica dal primo piano in poi i Barbacani sorreggono la zona sporgente come fossero una grande mensola. Quello della foto è in pietra d’Istria e si trova a Rialto. Serviva da modello per tutti i Barbacani veneziani.


Era il 1687 quando, come bottino di guerra, il doge Francesco Morosini portò dal porto di Pireo vicino ad Atene il più grande dei 4 leoni all’ingresso dell’Arsenale. La spedizione era quella famosa in cui i veneziani distrussero a cannonate il partenone, polveriera dei nemici turchi. Sulla spalla destra le famose iscrizioni runiche. Nella metà dell’anno 1000 il futuro re di Norvegia fu esiliato a Costantinopoli dove divenne a capo del corpo d’elite dell’esercito bizantino e conquistò Atene. Le iscrizioni sarebbero quindi un ringraziamento per l’impresa. L’impresa di aver conquistato il porto di Pireo e Atene.
 

Da Santa Maria Formosa per andare a campo Santa Marina v’é un ponte con i parapetti che negli anni di dominazione austriaca a Venezia lanciava un messaggio chiaro e univoco: via gli austriaci e “Viva Vittorio Emanuele II“. Infatti se esaminate bene il disegno del parapetto (segnate in rosso) sono evidenziate le lettere W V E
 


Questa è la ruota degli Innocenti. Una porta che un tempo serviva a mantenere l’anonimato a quei genitori che volevano tristemente lasciare il loro figlio appena nato in altre mani. Invece di abbandonare o, nelle peggior delle ipotesi, lasciar morire il nascituro al Monastero della Pietà esisteva questa porta. E adesso dove si trova questa porta? Inserita nell’ albergo Metropole. In calle.
 
Venezia città d’acqua
La porta principale del palazzo non era in strada ma quella che dava in rio. Come adesso si usa l’automobile nelle grandi città, a Venezia si usava la barca. Immaginatevi quanto traffico. Ora Venezia si spopola sempre di più, è una città vecchia. Però i vecchi muoiono e la casa resta libera. I nipoti vogliono divertirsi, non vogliono avere tanti figli, non la vendono ma la affittano come Bed & Breakfast, conviene. E i foresti amanti di questa prestigiosa perla occidentale comprano palazzi costosissimi. Ma li usano solo in pochi periodi dell’anno. Venezia quindi si ritrova ad avere 52.000 abitanti. Nel ‘500 era la città più popolosa d’ Europa. E se da un lato questo ci rammarica, da un altro ci fa pensare. Quanti poco sommessi rimbrotti da parte dell’opinione pubblica al sempre più pressante traffico acqueo? Come si fa ad avere molte imbarcazioni in più se la gente è sempre di meno? O è tutto per il foresto? Vogliamo la bicicletta?
 
Il sale e il vetro erano molto richiesti nell’Oriente musulmano in cambio di ferro. E alla Chiesa non va lo scambio con quelli che in quel periodo tenevano a scacco l’intero bacino mediterraneo. Ma i veneziani se ne infischiarono di minacce e scomuniche vendendo anche schiavi.
Ma lo scopo principale di questo trafficare con l’Islam è il commercio delle spezie, preziose per l’Occidente quanto prezioso era il sale di cui Venezia aveva il monopolio. La droga principale di quei anni era il pepe non esistendo ancora il te, caffè e il tabacco.
 
Il pepe serviva poi a insaporire alla bell’e meglio la carne di un po’ di giorni non esistendo il frigorifero. I nobili la conservavano nell’urina. D’inverno si usava la neve trasportata dai monti e conservata a fatica.
Assieme ai ricchi proprietari fondiari nasceva la nuova aristocrazia fatta di viaggiatori. Un po’ alla volta si assiste ad un accentramento di potere dove il popolo non contava per nulla; tutto era in mano agli aristocratici, tutto in mano ad una decina di famiglie.
Era il 1297 quando avvenne la cosiddetta Serrata del Maggior Consiglio: una sorta di colpo di stato. Prima, le decisioni politiche erano definite da non più di una quarantina di persone, poi da un’assemblea sovrana, il Maggior Consiglio, con quasi 2000 membri. Ma tutti quei 2000 appartenevano tutti alla stessa classe sociale, il patriziato che comprenderà ricconi e poveri discendenti da famiglie antichissime. Tutto questo per 500 anni.
La politica per il commerciante veneziano non è un mestiere ma un dovere. Il patrizio non ha altre alternative se non quello di appartenere al Maggior Consiglio o ad altre cariche dalle ambasciate ai governatorati ai comandi militari. Può navigare, commerciare e trascorrere molti anni via da Venezia ma quando ritorna deve obbligatoriamente partecipare alla vita politica.
 Verso il ‘700 il dovere di servire si fa sempre più rigido e opprimente. Dalla maggiore età, 25 anni, in poi dovrà per forza essere inserito in questo sistema. Può esserne escluso solamente se si fa prete poiché i preti sono assolutamente esclusi dalla politica. O sborsare forti somme in denaro. Il risultato della “serrata” sono 500 anni in cui nessuno poteva essere padrone assoluto della città. Due sono i personaggi che sono stati tentati di cambiare questo sistema: Bajamonte Tiepolo e Marin Falier. Il tutto naufragò con un ampio appoggio del popolo a favore della classe patrizia. Nulla evoca un’impressione di disordine e confusione come una pianta di Venezia o a uno sguardo agli infiniti particolari stilistici eppure il risultato è profondamente armonico. E la stessa sensazione di disordine la da il suo ordinamento politico. Eppure ha durato 1000 anni.
 


Il doge incarna la maestà dello stato. Indossa vesti sfarzose, manti in ermellino, oro e argento. Il corno ducale lo usa nelle numerose processioni, ma ne ha uno più prezioso chiamato zogia (gioiello) messo solo nel giorno della sua incoronazione in cima alla scala dei Giganti e nel giorno di Pasqua in visita alla chiesa di S. Zaccaria. Alla sua morte viene esposto nella sala del Piovego di palazzo ducale, portato con enorme seguito fino alla chiesa di San Giovanni e Paolo. Il suo corpo viene sollevato nove volte dai marinai al grido di “Misericordia!” Ma quello non è il doge, è un saco de pagia, e maschera de cera. La vera salma viene seppellita di notte nel riserbo più assoluto nella sua tomba di famiglia. Si, c’ é rispetto, devozione e onore alla carica ma non alla persona. I suoi poteri sono stati negli anni sempre più limitati per evitare indesiderate reviviscenze monarchiche e vengono ancor più limitati dai “Correttori alla Promissione ducale”. Il doge è uno dei dei rarissimi magistrati veneziani con mandato illimitato. La votazione per fare un doge è molto complicata. Si inizia con 1000 o 2000 patrizi davanti ad un urna in cui si trovano tante palle di rame quanti sono i votanti ma solo 30 dorate, e il ballottino. Un bambino tra gli otto e dieci anni scelto a caso pesca alla cieca le palle e le consegna ai nobili che gli passano davanti. I trenta che hanno ricevuto la palla dorata rimangono e gli altri se ne vanno. Il nome di ognuno dei dei trenta, gridato ad alta voce dagli uscieri, fa però uscire tutti i suoi parenti. Infatti i votanti rimasti devono appartenere a famiglie diverse. La sorte elimina ventuno dei trenta prescelti e tocca ai nove superstiti la designazione di quaranta elettori subito ridotti a dodici da una nuova elezione. I dodici eleggono, con una maggioranza minima di nove voti, venticinque nuovi elettori, sedici dei quali eliminati subito per estrazione a sorte. Tocca poi ai nove rimasti eleggerne quarantacinque dei quali solo undici verranno designati dalla balla d’oro come elettori degli lettori del doge. Ai quarantun elettori-eletti (che non devono far parte né degli undici, né dei nove, né dei dodici estratti negli undici sorteggi) spetta l’elezione del doge mediante un conclave che può durare anche sessantotto scrutini come nell’occasione di Carlo Contarini nel 1655. Una volta eletto, con una maggioranza di almeno venticinque voti, il doge si presenta al popolo in piazza San Marco nel suo pozzetto sorretto dagli arsenalotti con tanto di lancio delle monete alla folla festeggiante. Il doge, molto spesso, coronava con la sua elezione una lunga carriera al servizio della Serenissima nelle ambascerie, nel governo delle colonie e nell’attività parlamentare. Al doge venivano vietate molte cose. Non poteva proporre misure che aumentassero i suoi poteri, non poteva abdicare se non erano gli altri ad imporglielo. Non poteva ricevere nessuno in veste ufficiale senza la presenza dei consiglieri, non poteva concedere udienze private. Se qualcuno in qualsiasi circostanza gli parlava a tu per tu di affari di stato era obbligato a cambiare discorso. Non poteva esporre in pubblico il suo stemma. Né lui né i suoi parenti non potevano dare o ricevere doni. Nessuno doveva inginocchiarsi dinanzi al doge né baciargli la mano. Non poteva uscire da palazzo Ducale se non in forma ufficiale né andare a teatro o al caffè. Il doge non poteva andare in villeggiatura se non per motivi di salute. Per festeggiare l’elezione di un doge tutta la sua famiglia doveva sostenerne le spese, per non parlare poi del pagamento di tutti i suntuosi corredi dogali e i doni alla basilica di San Marco. Fra le cose vietate al doge c’era pure il proseguimento delle attività mercantili o finanziarie svolte prima della sua elezione. Alla sua morte, celebrati i funerali, c’era il redde rationem dove degli agenti controllavano le entrate e uscite della sua vita per accertare o meno delle irregolarità. Se c’erano erano i suoi eredi a sopportarne le conseguenze.
 

Il ponte della Paglia si chiamerebbe così perché colà, nella paglia appositamente messa a terra, si disponevano i cadaveri degli annegati sconosciuti in attesa del riconoscimento da parte dei parenti, una specie di obitorio all’aperto. Ma come mai una volta era molto comune cadere in acqua e annegare? Molti annegamenti erano dei veri e propri omicidi che, con l’annegamento, non si veniva mai a sapere il colpevole. Si poteva cadere dalla barca o dai ponti che in quei anni non avevano le bande e, di notte, si camminava a tentoni poiché non c’era l’illuminazione pubblica. Molti dicono che il ponte si chiamerebbe così perché là veniva scaricata la paglia che serviva ai cavalli di palazzo ducale. Le stalle sarebbero state quei balconi con le inferriate che vediamo tutt’oggi.

Veniva dalla Certosa del Montello (Treviso) un liquore appena scoperto dai monaci subito battezzato aqua vitae. Siamo all’incirca nel 1500 e veniva citato da un medico del tempo: “conserva la vita a chi lo beve togliendo ai corpi ogni putritudine, custudisce e ripara, prolunga la vita, vivifica gli spiriti vitali, scalda lo stomaco, conforta il cervello, acuisce l’intelletto, chiarifica la vista et repara la memoria”. Era la Grappa.
In un decreto del Maggior Consiglio del 1476 si stabilisce che la fiuba e il cao ( la fibbia alle scarpe e la cintura) non dovessero superare il valore di 15 ducati. Questo per frenare l’esibizioni del lusso che da sempre è stata una delle prerogative dei veneziani di ogni centro sociale. Basti pensare che le fibbie a quel tempo toccavano terra e molte volte erano di oro massiccio per gli anziani e in argento per i bambini. Se girate nella prima calle a sinistra delle Mercerie troverete la calle Fiubera, cioè dov’erano i negozi che vendevano ogni tipo di fibbia.
 

Nel periodo del carnevale a Venezia si usava mangiare la torta di farro. Si cuoce della farina nel brodo, aggiungendo formaggio fresco e stagionato grattugiato, poi strutto, grasso di vitello ben cotto, si impasta il tutto con uova, zucchero e zafferano. Si mette l’impasto a strati con la polenta, cospargendola alla fine con zucchero e irrorandola con acqua di rose.

Nel ‘500 molti andavano matti per lo sciroppo di rose, quello che poi Nostradamus perfezionò chiamandolo rosolio e che diventò il liquore tipico di Venezia.

A Venezia, come in altre parti d’Italia e in Europa, molti ortaggi erano ritenuti velenosi, come gli spinaci, i piselli e gli asparagi. Fu solo dopo la fine del ‘500 che questi cibi cominciarono ad apparire sulle mense più raffinate.

A Venezia si usavano molto le spezie, vuoi perché ne aveva il monopolio, vuoi perché nascondevano, con il loro forte sapore, i “difetti” di molte pietanze.
A quel tempo veniva accostato, come si fa ora in molte cucine, l’agro, il dolce, il salato. Questo è un elenco di pietanze presenti ad una cena importante. Granseole lessate e condite con spezie d’Oriente, gamberetti con salsa di miele, canocie sfilettate con olio e pepe, cape longhe in graticola con pesto di prezzemolo, zucchero e aglio, cape sante cotte alla griglia e cosparse di olio, farina, limone e pepe, seppie in tocio, in umido bianco, branzino con salsa di uova, aceto e uva sultanina, gamberoni cotti sulla piastra ardente e cosparsi con una salsa fatta con rossi d’uovo, sale, pepe, spezie, miele d’acacia ed aceto aromatico, pesce alla griglia. Nella cena poi erano presenti una vasta scelta di volatili che abbondano nella laguna, carni di ogni genere e verdure degli orti di Venezia e delle isole come quella di S. Erasmo condite con un grande assortimento di salse.

 
Il palazzo veneziano conserva sempre la traccia della sua origine e cioè la casa-fondaco. E’ quindi la residenza del patrizio ma anche l’ azienda del mercante.
Ha due ingressi: uno dall’acqua dove entrano pure le merci chiamata riva, l’altro da terra, che può immettere in una corte con pozzo per l’approvvigionamento idrico e scala esterna. La merce arrivava quindi di solito via acqua e portata al piano di sopra, nel salone principale, per essere mostrata ai clienti. In futuro il salone principale veniva utilizzato solo per feste e ricevimenti. Al piano terra, lateralmente all’androne d’ingresso, v’era il mesà o piano ammezzato; le ali erano divise a metà in altezza e utilizzate come uffici amministrativi del mercante. Le stanze laterali al salone principale erano utilizzate come abitazione propria del “paròn de casa”. Infine il sottotetto abitato in origine dai servitori e dagli addetti all’azienda mercantile. Anche se negli ultimi quattro secoli della Serenissima è andata persa la vocazione originale di quella società di mercanti imprenditori si è voluto continuare a costruire rispettando quello stile divenuto oramai tipico della città lagunare.
 
Palazzo Mastelli o del Cammello a Cannaregio dalle parti della Madonna dell’Orto. Questa era la casa dei fratelli Rioba, Afani e Sandi Mastelli venuti dalla Morea nei primi anni del 1100 ed era la sede del loro commercio. Come mai si chiamavano Mastelli? Ma dal soprannome che i veneziani gli avevano affibbiato e cioè dai mastelli (catini) pieni di soldi che questi possedevano. I fratelli Mastelli li potete trovare nel campo dei Mori vicino l’entrata del palazzo. Le loro tre statue (ma ce n’é una quarta vicino alla loro e sarebbe quella del loro servitore e cioè quello col cammello qui sopra) sono scolpite nella pietra d’Istria e incastrate nel muro. Una leggenda dice che le statue sarebbero loro stessi pietrificati a causa della loro disonestà. Un giorno una donna andò da loro per vedere se c’era un qualche briciolo di onestà nei loro affari proponendo loro di dotare il suo negozio, appena avuto in eredità dal marito defunto, di stoffe della migliore qualità. I Mastelli, fiutando l’affare, proposero del materiale scadentissimo approfittando della sua ingenuità e inesperienza. Ma lei, che invece di stoffe se ne intendeva, nominando il nome di Dio, diede loro delle monete che, mentre le ebbero finalmente in mano, si trasformarono in pietra le monete e loro stessi. La donna andò via e al mattino dopo il servitore trovò le statue che vennero incastrate nel muro tempo dopo.
Quando passate per il Canal Grande dalle parti della fermata di SS. Ermacora e Fortunato (San Marcuola, c’est plus facil) noterete l’iscrizione “Non nobis” sulla facciata del palazzo del Casinò e cioè Ca’ Vendramin Calergi. “Non nobis” sarebbero le prime lettere del motto dei Cavalieri Templari: “Non nobis Domine, non nobis, sed nomini Tuo da gloriam”. Non a noi Signore, non a noi, ma dal Tuo nome dà gloria. Ma chi erano i templari? E cosa centrano con Venezia? Erano dei monaci guerrieri (la leggenda li vuole custodi del Santo Graal) che dovevano proteggere i pellegrini che si recavano in Terra Santa. Nati poverissimi, in pochi anni si sono talmente arricchiti al punto di essere invidiati da Papi e Re tra cui il Re di Francia Filippo il Bello anche perché con loro aveva un grosso debito. Talmente invidioso che cominciò a imprigionarli e a torturarli. Una leggenda dice che i Templari arrivarono a Venezia con un grosso tesoro che venne sotterrato a San Giorgio in Alga (l’isola che in questi giorni è in mano alla Protezione Civile per le loro esercitazioni). Tesoro che dovevano prelevare in un secondo tempo ma che poi non si seppe più nulla. Avevano un convento vicino a San Giorgio degli Schiavoni dove fino a pochi anni fa c’era il laboratorio della Croce di Malta e un’altro dove adesso c’é l’Albergo Luna Baglioni in calle Cà Vallaresso. E l’iscrizione “Non nobis” sulla facciata del Casinò? Un caso? Un messaggio per chi sa? L’Ordine dei Templari si sciolse nel 1312.
 

 
Fu la figlia di Filippo Sanudo che, in occasione di un matrimonio tra nobili veneziani, fece sfoggio di “pendenti nelle orecchie come i Mori”. Si fece forare i lobi e si infilò un anellino con una perla nera per orecchio: erano nati i primi orecchini.
 
Il ponte della Libertà, quello che collega il mondo con Venezia, è il ponte più lungo d’Italia con i suoi 3.623 metri e al momento della sua edificazione era il più lungo del mondo.
 
La sigaretta è probabilmente l’ennesima invenzione veneziana. Anche se si dice che a inventarla furono dei soldati musulmani, nei documenti veneziani di 50 anni prima si può leggere un divieto di vendere tabacco in “cartine”.
 
 
La torre dell’Orologio
“Te fasso veder che ora che se”. Ossia: ti faccio vedere che ora è. Questo modo di dire ebbe origine dalla veduta che aveva il reo prima di essere condannato tra le due colonne di Marco e Todaro al molo di San Marco e cioè l’orologio cinquecentesco vicino alla basilica.
 
Fu una principessa greca, Teodora sorella dell’imperatore d’ Oriente Alessio, che avendo sposato il doge Domenico Selvo importò l’uso della forchetta a Venezia. Teodora non era ben vista in città per i suo fare troppo da principessa: si lavava troppo spesso con acqua profumata e non usava portare cibo alla bocca se non con un arnese a due punte, la forchetta. Il termine veneziano piròn indica, come in lingua greca, la forchetta, mentre il termine forchetta deriva dal latino furca ovvero forcone. Siamo nel 1077, cinquecento anni prima che Enrico III mostrò al mondo l’uso della forchetta e che diede ai francesi la paternità dell’invenzione.
 

 
 
Nel cerchio rosso la “Torresella”
 
Le prigioni della Serenissima
Il palazzo ducale, sede del governo fin dall’inizio della storia di Venezia, ha da sempre ospitato al suo interno luoghi di pena.
All’inizio le prigioni dovevano trovarsi all’interno della torre fortificata detta “Torresella” presente nella prima costruzione del palazzo demolita in parte e inglobata poi nel palazzo che vediamo adesso nell’angolo vicino al ponte della Paglia. Ma il numero delle celle si rivelavano subito insufficienti. Tanto insufficienti da doverne creare di nuove sul lato Sud al piano terra di fronte al bacino ai lati della porta del Frumento che ora è l’ingresso del palazzo ducale. In seguito ne verranno aggiunte altre soppalcando gli alti soffitti creando delle ulteriori celle, per non parlare delle celle sotto i tetti piombati.
La loro funzione cessa nel 1500 quando vennero costruite le Prigioni Nuove dopo il ponte della Paglia e collegate al palazzo con il famoso ponte dei Sospiri. Iniziamo a capire dov’erano situate le prigioni. Dal lato della porta della Carta si avevano le abitazioni degli scudieri ducali e le scuderie. Dall’altezza della porta che adesso è chiusa ma che fin pochi anni fa era la sede della polizia urbana, iniziavano le celle: prima era quelle delle donne, seguiva poi la prima degli uomini e le stanze dei Signori di Notte al Criminal, la polizia che giudicava i colpevoli d’assassinio, di bigamia, furto.
 

Si continua poi con una serie di celle (si hanno dei documenti che specificano le dimensioni delle singole) dove ad ognuna si è dato il nome: Liona, Lionessa, Valiera, Forte, Mocina, Schiava, Galiota… Nella “Torresella” le celle sono a stretto contatto con le grandi e nobili sale del palazzo ducale che sempre si ha avuto paura che qualche incendio avesse da fare molti danni. Ora che la Torresella non esiste più si possono notare solamente delle scritte dei condannati sui muri nella sala delle armi. Nel ‘500 parti del palazzo sono in rovina che molte celle vengono eliminate. Si costruiscono allora di nuove al piano terra quasi tutte completamente cieche, umide e fredde: i pozzi. I Piombi invece stanno sotto i tetti del palazzo, in pratica le soffitte. Da subito si sono rivelate insicure e malsane tanto da limitarne il numero.
Vicino l’angolo del palazzo ducale, non si sa se a piano terra o al mezzanino, stava la Camera del Tormento che sarebbe la sede dei Signori di Notte al Criminal. La polizia interrogava e, se necessario, torturava i rei accusati di furto, di omicidio. Una seconda Camera del Tormento fu costruita vicino alla Cancelleria superiore dall’altra parte del palazzo. La stanza, sdoppiata in altezza e che tutt’ora è visibile nell’itinerario di visita al palazzo, ha al centro una corda appesa al soffitto dove il prigioniero è sospeso durante gli interrogatori procurandogli sofferenze.
Nel 1475 lo spazio per i prigionieri è insufficiente che si pensa di adattare alcuni locali dei granai di Terranova, dove adesso ci sono i giardini di San Marco, a celle per rei che dovevano scontare condanne a tempo. Poco dopo il Consiglio dei X acquista altri locali nelle abitazioni subito dopo il ponte della Paglia. Nel 1519, per motivi di igiene e insalubrità, si pensa di demolire tutto lo stabile, chiamato Vulcan, e di costruire una prigione tutta nuova chiamata Nuovissima. In un secondo tempo vengono sgomberate le case lì vicino e ci si convince della necessità di costruire un vero e proprio palazzo delle prigioni.
Il 20 dicembre 1577 scoppia il famoso grande incendio del palazzo ducale. Le prigioni del piano terra vengono eliminate e adibite a luoghi d’incontro e di riunione. Dopo la costruzione del nuovo palazzo delle prigioni oltre il ponte resteranno solo i Pozzi. I progettisti delle Prigioni nuove sono due: Antonio da Ponte e Zamaria de’ Piombi.
Le celle sono molto anguste e completamente buie. Al prigioniero non restava che un foro di 20 centimetri da dove passava un po’ d’aria e un po’ la luce delle torce dei corridoi. Al piano terra si trovano celle di cui due adibite a dormitorio per i guardiani, e al piano di sopra altre, di cui 4 riservate alle donne. Altre celle più ampie verranno adibite ad infermeria o come luoghi per detenuti con pene più leggere. La prima fase della costruzione nasce vicino all’attuale ponte dei Sospiri, la seconda demolendo delle altre case fatiscenti confinanti nella calle degli Albanesi e la terza costruendo verso il bacino. Tutta la complessa vicenda della costruzione delle prigioni che vediamo adesso ruota attorno alla volontà di offrire al prigioniero una vita meno aspra. Le celle prendono il nome da quelle vecchie del palazzo ducale. Il cortile centrale verrà scelto come luogo di respiro e passeggiata per i detenuti.
Il Da Ponte muore mentre si sta costruendo il palazzo delle prigioni nuove e gli succede Antonio Contin, il progettista del ponte dei Sospiri. Non vede però il suo progetto terminato poiché, dopo tre anni dalla sua nomina, muore anche lui. Lo sostituisce Bortolo Alessandro. Il ponte ha due passaggi separati da un muro longitudinale al ponte stesso: venendo dalle prigioni verso il palazzo ducale entriamo nella sala del Magistrato alle leggi a destra e nel passaggio a sinistra, leggermente più basso, in un corridoio che da accesso ad un parlatorio e alle sale dell’Avogaria. Entrambi i corridoi sono collegati alle scale che vanno ai Pozzi. In pratica, per il trasferimento dei prigionieri, si offrivano diverse possibilità: dai Pozzi alle prigioni Nuove e viceversa, oppure potevano essere introdotti nelle sale dei Tribunali. La denominazione “dei Sospiri” è frutto della letteratura romantica, quando la funzione del ponte era già cessata. E’ il sospiro del prigioniero che dai Tribunali del palazzo passa sopra il canale attraverso il ponte verso le carceri e intravede le grate in pietra d’Istria delle finestre la laguna…
Le celle delle nuove prigioni sono rivestite in triplo strato di assi in larice fittamente inchiodate: pavimento, muri, soffitto. Ma l’umido le imputridisce rapidamente che bisogna sostituirle ogni tre o quattro anni. Per dormire si usava un tavolato in legno inchiodato alla parete e appoggiato su due pietre d’ Istria. C’era poi una mensola messa ad altezza d’uomo, il secchio per i bisogni naturali, un materasso di paglia e un recipiente per l’acqua.
Le condizioni di vita dei prigionieri sono dure: mancanza d’aria, sporcizia, cibo cattivo, caldo torrido d’estate e freddo d’inverno. C’erano poi i topi e altri parassiti che portavano malattie a volte anche mortali. Ma le loro condizioni non erano diverse se non migliori delle altre condizioni di vita delle altre carceri italiane e straniere. Anche il libero cittadino di bassi strati sociali non è che se la passasse molto diversamente. A prova di questo è che molte case sono per un certo momento usate come delle prigioni e molte celle sono state adibite a stanze dormitorio per soldati, il portinaio, per gli uffici di magistrati e così via.
Ai prigionieri si cerca di non far mancare lo stretto necessario per una vita dignitosa. Molte volte è il prigioniero che decide dove desidera essere rinchiuso, basta che paghi. A molti prigionieri ammalati si consente la visita dei loro parenti e di essere addirittura portati a Padova per essere curati meglio. Si sa che Ser Piero Pasqualigo avesse avuto il permesso di poter continuare gli affari e far conti da dentro il carcere nella camera degli scudieri.
 
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