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Ci sono ancora i veneziani di una volta? Ma chi sono i veneziani di una volta? Di che epoca intendiamo quando parliamo di veneziani? Parliamo dei primi abitanti delle isole che con costanza e paura cercavano di vivere coltivando orti e sale scappando dalla realtà di terra, così vicina ma così lontana o di quei valorosi signori che nell’età d’oro della Serenissima facevano di tutto per conquistare terre per commerciare il commerciabile come stanno facendo le multinazionali americane e cinesi adesso?

Quando si parla di essere veneziani mettiamo in primo piano l’orgoglio di appartenere ovviamente a tutta quella gente vincente che ci ha preceduto, ci tatuiamo il leone alato e non tentenniamo quando, all’estero, precisiamo di essere prima di tutto veneziani piuttosto che italiani.

Ma veniamo al giorno d’oggi. I veneziani di una volta, la Venezia di una volta sono i nostri padri, i nostri nonni o addirittura noi nati negli anni ’60 che, infanti, ci buttavamo dai ponti come fanno i turisti ora; noi nelle fotografie in bianco e nero a cui dava fastidio l’odore del vino che sentivamo nelle osterie che niente hanno a che vedere coi bacari di adesso così pieni di leccornie; noi che scappavamo dai vigili nel bel mezzo di una partita di calcio in campo. Eravamo padroni della nostra città, guardavamo i turisti con curiosità notando le piccole o grandi differenze prendendo magari in giro la giapponese timida o il tedesco coi sandali di pelle e calzini bianchi.
Ma si sa, i ricordi sono sempre e solo ricordi, restano lì e non cambiano mai, forse per questo sono innocui e te ne affezioni. Ci lamentiamo che non c’è più la Venezia della nostra giovinezza. Si lamenta nostro padre che non c’è più la Venezia degli anni ’40. Si lamenterà fra un po’ nostro nipote quando non ci sarà più la Venezia degli anni che stiamo vivendo ora.

Oggi sono pochi i veneziani che vivono in città. Capita spesso di vederne uno che era da tanto che non lo vedevi e ti domandi dov’era andato nel frattempo ma soprattutto cosa ci fa ancora a Venezia. Lo vedi quasi parte di un grande club, il club dei superstiti, pedine di una guerra silenziosa che sta cambiando tutto come del resto avviene da sempre nel mondo. Un riciclo continuo di persone che lentamente si sposta come un liquido lento e viscoso.

I nuovi veneziani ora sono gli immigrati del Bangladesh, cinesi, filippini, rumeni, le badanti, i venditori di souvenir a basso prezzo, i baristi, i Vù Comprà. Quasi tutta gente che ha preso il posto al veneziano stanco di aver lavorato una vita, che si è accorto che dopotutto prendere un po’ meno, complice anche la crisi, ma stare a casa ad oziare o a curare i propri hobbies è la scelta migliore da fare ad una certa età. Molti negozi hanno chiuso perché se vuoi da mangiare vai al supermercato, se vuoi leggere hai il tablet, se hai bisogno da vestire spendendo meno o se vuoi tutto il resto c’è Amazon.

I nuovi veneziani sono le commesse dei vari Intimissimi, Swatch, Gucci, le varie catene presenti in tutto il globo che hanno preso il posto del negozio locale. Le uniche a potersi permettere il lusso di pagare l’affitto esagerato ai proprietari dell’immobile. Già, “i proprietari del fondo”, quei cinici e invisibili figuri che si aggirano per la città ma che non riesci mai ad individuare tanto sono silenziosi e felpati. Su di essi nascono delle leggende che vanno dal “potrebbe camminare da Venezia a Padova calpestando solo il pavimento delle sue case” a “ti vedi che’l vecio orbo che pàr un barbon? El xe paron de mesa Venessia”.

I nuovi veneziani sono i nipoti dei nonni morti a cui hanno lasciato la casa per farci un b&b.

I nuovi veneziani sono infine coloro che si accorgono di vivere in una città resa ancora più meravigliosa dai social network. Gente che riscopre, tramite post mirati, una Venezia che c’era anche prima. Che si accorge di essere veneziano (magari da generazioni, guarda un po’). Gente che crea prima siti su Venezia, poi gruppi su Facebook (Venezia dovrebbe essere la città che al mondo ha quasi più gruppi dedicati a lei che abitanti) vuoi ammaliata, vuoi incazzata. Gente che manifesta in piazza il proprio dissenso su tutto ma che poi, forse perché trova il muro di gomma dell’amministrazione o perché la cosa è troppo grande, si ritrova di colpo spenta come un fuoco del Redentore dopo il botto. Sembra quasi che il sedativo, la quiete dopo l’orgasmo sia la conseguente presenza nei media della manifestazione stessa. Una volta che quello che si è fatto è stato pubblicizzato nel giornale, nella radio, nella tv tutto si diluisce come una goccia di colore nel mare. E forse i politici lo sanno. Lo sanno per esperienza. Ci lasciano fare, ci aiutano anche. Fanno la loro presenza alle manifestazioni, ci danno pacche sulle spalle, sorrisi e ammiccamenti. Ci dicono che sono con noi ma se non cambia nulla non è colpa loro.

Nel 2017 sono censiti in laguna appena poco più di 54.000 abitanti e Venezia è come un condominio dove ognuno pensa al proprio appartamento e dove tutti ci lamentiamo senza fare qualcosa, siamo pignoli quando si tratta di discutere col vicino ma sbrigativi quando si tratta di noi stessi. Ci riuniamo per migliorare ma al primo intoppo si incazziamo rimproverandoci a vicenda. Lasciamo la lavatrice in calle e il giorno dopo ci lamentiamo che c’è.

Chi siamo noi veneziani? Siamo i pastori, le pecorelle, il fabbro e tutte quelle statuine che sono presenti nel presepio pronte per essere ammirate nel contesto. Siamo il muschio, le montagne spolverate dalla farina, siamo le comparse del momento riciclate dalla generazione successiva ma tutte uguali a se stesse. 
E il foresto passa. Passa e ammira. Il foresto vuole essere protagonista perché Venezia è famosa quanto un divo del cinema e tutti vogliono far sapere al mondo che un po’ di Venezia è anche loro. Ma se prima bastava una foto, adesso bisogna fare il bagno in laguna, gettarsi dal ponte di Rialto, mascherarsi come i veneziani del ‘700, nuotare nell’acqua alta, imbrattare i muri, lasciare un segno. E noi veneziani ad indignarsi, forse invidiosi. Perché quelle cose, noi, le facevamo da sempre che ce le sentiamo come rubate.

Al tempo della Serenissima la cosa più brutta che poteva succedere ad un veneziano era quello di essere esiliato, allontanato da quella Madre Venezia che accoglieva chi se lo meritava e l’amava anche a costo della vita. L’esilio era la punizione più crudele, ora un’opportunità per molti. Ci si organizza e si pianifica il futuro andando ad abitare oltre il ponte lasciando la propria dimora di dove si è nati a dei turisti sempre più esigenti: prenotazione via internet, bonifico lampo, password per entrare in casa e moldava alle pulizie. Il tutto controllato comodamente seduti dal divano magari con la bandiera del leone alato sventolante in giardino.
Del resto, vivere in una piccola e scomoda città con 30 milioni di presenze l’anno vuol dire vivere male. Vivere in campagna con l’auto e la bicicletta nel giardino fiorito col flebo continuo di un generoso introito di una casa in affitto è, diciamocelo in tutta confidenza, tutta un’altra cosa.

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